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Giovanna Adinolfi: «Cerco mio padre dal 1994, non sapevamo degli scavi. Hanno tentato di infangarlo. Nicoletti disse: non dirò dov’è»

di
Roberto Saviano

La figlia del giudice scomparso: «Uno strazio, io spero ancora di incontrarlo. In questura ci dissero: “Sarà scappato con una ballerina brasiliana”. Incredibilmente non è ritenuto vittima di mafia»

Immaginate di avere 21 anni, un fratello di 16 che sta studiando all’estero e di essere a pranzo un sabato d’estate con vostra madre. Immaginate di aspettare vostro padre per iniziare a mangiare la pasta e fagioli appena cucinata. Immaginate che non arrivi, che il tempo passi, che si faccia sempre più tardi. Nessuno mangia. La preoccupazione cresce. Non ci sono i telefoni cellulari. Ogni chiamata in ufficio squilla a vuoto, gli amici non sanno nulla, dagli ospedali arriva sempre la stessa risposta: nessuna traccia.  E immaginate che da quel momento, da quel giorno sospeso, non arrivi più alcuna notizia di vostro padre.

 Ecco: questo è accaduto a Giovanna Adinolfi, figlia del giudice Paolo Adinolfi. È una persona rara, tenace, caparbia, ostinata. Dal 2 luglio 1994 cerca suo padre. È una donna che, come forma di resistenza, ha saputo custodire uno spazio di dolcezza, pur portando su di sé una ferita che non può rimarginarsi, ha deciso di non affrontare con aggressività l’orrore del mondo, né di permettere che le maldicenze avvelenassero l’amore per suo padre compromettendo poi il percorso della sua vita. 

Giovanna Adinolfi è esattamente oggi ciò che suo padre avrebbe voluto fosse e questo riesce a farla sentire in asse, in coerenza in questa vita che l’ha costretta alla prova più dura, una scomparsa, nessuna tomba, nessun indizio, niente di niente, nessun processo, nessuna sentenza. Suo padre è scomparso nel nulla. 

Paolo Adinolfi era un giudice civile: non trattava di narcotraffico, di racket, di omicidi o di associazioni mafiose. Non era scortato. Ma è senza alcun dubbio il primo giudice martire del riciclaggio, (prima di lui era stato ammazzato l’avvocato Giorgio Ambrosoli) uomini che cadono perché decidono di permettere alla luce di entrare nel tunnel oscuro denaro. Toccano il capitalismo criminale, non arrestano killer, non indagano su omicidi, non sequestrano eroina, ma cercano di portare regole dentro i profitti, legge nel luogo dove non esiste legge, i dividendi dei profitti criminali. 

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Paolo Adinolfi si occupava di fallimenti e dietro i fallimenti spessissimo ci sono i flussi economici delle organizzazioni criminali. Giovanna, sua madre e suo fratello hanno sopportato per anni il vento gelido della maldicenza, delle lettere anonime, il freddo di molti (non tutti) suoi colleghi che per comoda codardia non l’hanno considerato un martire, non l’hanno ricordato, hanno permesso che questa storia si spegnesse. «Sarà scappato con qualche brasiliana», dicevano in questura. Oppure: «Chissà in quali intrallazzi si sarà cacciato». Veleni, illazioni, tentativi di trasformare il dolore in colpa. 

Il caso del giudice Adinolfi è uno dei più sottovalutati e meno raccontati d’Italia. Dal giorno della sua scomparsa non è stata trovata una sola traccia. Troppo silenzio si è posato su questa storia, un giudice probabilmente fatto scomparire perché aveva aperto fascicoli su aziende che non dovevano essere sfiorate da indagini, le aziende di camorra e banda della Magliana da sempre saldate da antico sodalizio.

Giovanna ha deciso di non permettere che quel silenzio diventasse oblio ma non ha mai alzato voce, cercato ribalta, come suo padre ha una istintiva diffidenza per la mediaticità. In questi anni lei e suo fratello sono gli unici che hanno cercato di non far svanire la memoria di Paolo Adinolfi loro e un libro che mette insieme tutto scritto da Alvaro Fiorucci e Raffaele Guadagno, La scomparsa di Adinolfi, pubblicato da Castelvecchi Editore. 

Ho conosciuto Giovanna Adinolfi quasi un anno fa in occasione di una intervista che abbiamo fatto per il mio canale Youtube proprio su suo padre. La ricontatto per chiederle quello che sta provando in queste ore.

Sapeva che ci sarebbero stati gli scavi sotto la Casa del Jazz per trovare i resti di suo padre?
«No l’abbiamo saputo dai giornali anzi da amici che hanno visto i giornali prima di noi. Nessuno ci ha avvertito».

Ma come mai solo ora dopo trent’anni? Ci sono nuovi indizi?
«Non ne abbiamo assolutamente idea…».

Come avete vissuto queste ore?
«È stato terribile non ce l’aspettavamo è molto difficile accettare l’idea che si riapra un capitolo di ricerche che non avevamo idea sarebbe stato riaperto. Sono ore di strazio anche se capiamo che se ci sono dei dubbi è giusto andare a vedere cosa c’è…».

Quando abbiamo fatto la nostra intervista su Youtube vista da mezzo milione di persone si aspettava che qualcosa si sarebbe mosso?
«Era mia speranza, la nostra intervista è servita a far conoscere ai più giovani il lavoro di mio padre, e chissà forse a innescare nuova linfa negli inquirenti. La vicenda di Nicoletti di cui abbiamo parlato era emersa già in questi anni molte volte ma sempre senza esito».

In breve che rapporto c’e’ tra il cassiere della Banda della magliana Nicoletti e suo padre?
«Ci raccontarono che a una cena una persona importante disse “Paolo si sa benissimo dov’è” è sotto la casa di Enrico Nicoletti che ora è la casa del Jazz. Ci arrivò come un pettegolezzo ma mia madre fece un esposto. Mia madre ha sempre denunciato ogni informazione che ci arrivava».

Ebbe seguito la denuncia di sua madre?
«Interrogarono Nicoletti e scavarono anche sotto casa sua ma le macchine all’epoca si fermarono perché il terreno era molto poroso. Nicoletti stesso ci raccontarono disse al giudice “Io so che lei vuole sapere dove è Adinolfi io non glielo dirò”».

Sapeva quindi?
«Non lo sapremo mai se fu provocazione perché gli avevano scavato sotto casa, o davvero sapeva e non disse niente».

Lei crede che la sua scomparsa sia legata alla sua esperienza di giudice fallimentare?
«Mio padre a casa diceva sempre a Roma c’è la camorra e nessuno se ne accorge, a volte ho la sensazione che non avesse ben chiaro il rischio che stesse correndo. O forse ci ha solo protetto non dicendoci nulla».

Suo padre ha anticipato di decenni la presenza delle mafie su Roma e attraverso il denaro e non gli omicidi.
«Il suo obiettivo era “svuotare gli armadi” cioè studiare tutti i casi fermi di cui nessuno si occupava. Studiò la vicenda del fallimento di una società chiamata Fiscom (1992), che secondo gli inquirenti aveva legami con ambienti della criminalità organizzata e con la Banda della Magliana, ma non era l’unico caso. Mio padre non lo ricordo mai in ferie».

Quando suo padre scomparve vi attivaste subito?
«Cercammo ovunque, cercammo nei parcheggi convinti che fosse svenuto in auto, andammo dalle poche persone che lo conoscevano bene, in questura ci dissero “sarà scappato con qualche ballerina brasiliana vedrete che torna presto”».

Sperate che sia lì dove stanno scavando?
«Non so cosa sperare una parte di me da sempre spera ancora di incontrarlo per strada se devo essere sincera. Ovviamente se si trovassero i suoi resti fermerò ciò che non ho mai fermato».

Pensa ogni giorno a suo padre?
«Ogni giorno, ogni giorno mi domando dove abbiamo sbagliato, cosa non abbiamo ancora fatto per arrivare a una verità. Non ho pace. Per anni guardavo i clochard per strada sperando di trovarlo magari vittima di una amnesia. Ingenuità ma non c’è stato un solo giorno in cui non mi sia mancato profondamente. Uno solo».  

Cosa è successo a suo padre, oggi si è fatta almeno dentro si lei una sua ipotesi in cui credere?
«Io non lo so cosa sia successo a mio padre non ne ho proprio idea sono decenni che ci pensiamo. Nel mio cuore sono convita che c’entri la rettitudine e l’estrema serietà con il quale interpretava il suo lavoro. Mi sveglio ogni giorno con questa domanda: papà a cosa stavi lavorando per cui ti hanno fatto sparire?».

Come vorrebbe che fosse ricordato Paolo Adinolfi?
«Vorrei lo si ricordasse una persona integerrima e poi una persona buona che è una qualità dimenticata e sottovalutata. Mio padre era un cristiano convinto, e ha sempre creduto che il diritto fosse lo strumento per difendere i deboli, per affermare la democrazia, e quindi il suo lavoro lo interpretava con rigore la sua vocazione era far bene il suo lavoro».

Ufficialmente suo padre non è considerato vittima di mafia vero?
«No. Incredibilmente no».

Oggi suo padre avrebbe 83 anni.
«Anche se io dovessi vivere cento anni, continuerò a cercare mio padre, continuerò a cercare di capire cosa è successo, dove è finito, chi ce l’ha portato via per sempre». 

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16 novembre 2025 ( modifica il 16 novembre 2025 | 08:21)

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