L’ombra lunga di Franco

«Españoles, Franco ha muerto». Sono passati esattamente 50 anni oggi dal giorno in cui, vestito di lutto e con faccia contrita ed espressione di circostanza l’allora presidente del governo spagnolo, Carlos Arias Navaro, annunciava che era morto il dittatore che governava con pugno di ferro il paese dal 1939. Anno in cui aveva vinto la cruenta guerra civile che lui stesso aveva scatenato tre anni prima con il suo colpo di stato contro la Repubblica instaurata nel 1931.
DUE GIORNI DOPO, il 22 novembre di quello stesso 1975, Juan Carlos I di Borbone prende il posto del dittatore e viene proclamato re e capo di stato, come lo stesso Francisco Franco aveva stabilito.Quel giorno si chiuse una fase storica per la Spagna, e se ne cominciò ad aprire un’altra, anche se nessuno sapeva esattamente cosa aspettarsi con la fine di Franco e del sanguinario regime che aveva instaurato.
La notizia della morte del dittatore in realtà non prese per sorpresa nessuno. A 82 anni, Franco stava già morendo da alcuni mesi. La sua ultima apparizione pubblica fu a inizio ottobre, affacciato dal Palazzo Reale di Madrid arringando alla folla per dire che la reazione europea davanti alle ultime cinque fucilazioni da lui ordinate pochi giorni prima, le ultime pene capitali comminate in Spagna, era «dovuta a una cospirazione massonica di sinistra, in collusione con la sovversione comunista-terrorista nella sfera sociale, che, mentre onora noi, degrada loro». La sua debolezza fisica era molto evidente. Al suo lato, l’allora principe Juan Carlos. Persino il pontefice Paolo VI e il premier svedese Olaf Palme erano intervenuti per chiedere clemenza. Franco aveva indultato arbitrariamente sei degli undici condannati, ma le esecuzioni degli altri vennero comunque portate a termine. Il presidente messicano Luís Echeverría chiese l’espulsione della Spagna dall’Onu, e 12 paesi ritirarono gli ambasciatori da Madrid.
NEI GIORNI SUCCESSIVI, gli eventi nel Sahara si intrecciano con la salute sempre più precaria del generalísimo. Il 15 ottobre soffre il primo dei tre infarti che ebbe in pochi giorni. La notizia non trapela. Si monta nel Palazzo del Pardo – dove risiedeva da quasi 40 anni – una specie di task force medica di emergenza, ma il dittatore non accetta limitazioni. Il 17 ottobre presiede il suo ultimo consiglio dei ministri attaccato a un elettrocardiogramma che consultano i medici in una stanza attigua. Il governo vuole evitare lo scontro col Marocco, ma Franco non è d’accordo. Il 21, un secondo attacco di cuore. Sulla stampa: una «leggera influenza».
In segreto scatta il piano Lucero, i preparativi per la morte e l’imbalsamazione del dittatore. L’obiettivo del regime è duplice: resistere il più a lungo possibile per controllare il dopo-franchismo e controllare le piazze. In pochi giorni la situazione precipita: la salute del generalísimo peggiora, con una copiosa emorragia. Il governo sta gestendo la crisi nel Sahara, ritirando esercito e popolazione civile, pianificando un accordo con Rabat senza che lo sappia il caudillo. Il 3 novembre, Franco viene operato dentro lo stesso palazzo dove risiede per fermare l’emorragia. Sarà la prima delle tre operazioni a cui verrà sottoposto in pochi giorni. Intanto il Marocco ha dato il via all’invasione del Sahara con la Marcia Verde. Mentre il regime cerca di puntellarsi prima della fine, Franco agonizza per giorni, viene mantenuto in vita il più possibile. Il suo medico, che è anche suo genero, scatta in segreto foto molto polemiche pubblicate anni dopo dello stato pietoso in cui si trovava colui che aveva tenuto in pugno un paese. Franco, al contrario dei suoi soci fascisti, muore di vecchiaia e senza rispondere dei suoi crimini. Il feretro venne portato al monumento della Valle de los Caídos, quello stesso luogo che il governo Sánchez è deciso a risignificare e da cui qualche anno fa lo stesso governo rosso viola l’aveva fatto sloggiare. Di questi giorni è proprio l’approvazione del progetto per trasformare il monumento voluto dal leader fascista in un memoriale sulla dittatura.
TRA LA MORTE DEL DITTATORE e le prime elezioni libere passano quasi due anni. Era dal 1936 che in Spagna non si votava. Sono due anni in cui Juan Carlos capisce che, per evitare l’esplosione delle piazze, è necessario aprire una tappa democratica, con l’aiuto di chi aveva nominato come presidente del governo: Adolfo Suárez, che non esitò a utilizzare ricatti e minacce ai suoi ex compagni franchisti per ottenere il «suicidio» delle Cortes franchiste e la legalizzazione di tutti i partiti, incluso il partito comunista.
La costituzione arriva l’anno successivo: nel 1978. L’ombra del franchismo si è però allungata fino alla Spagna di oggi. E non è solo il tentativo di colpo di stato del 1982, secondo la storiografia ufficiale «fermato» da Juan Carlos. È anche il non aver mai fatto i conti con il passato. Il passaggio alla democrazia avvenne in maniera relativamente pacifica – anche se le molte proteste in piazza sono state represse con durezza anche nei primi anni della cosiddetta «Transizione». Ma il prezzo da pagare per la libertà è stato quello di aver fatto cadere un pietoso velo sulle responsabilità di quegli anni, sulle connivenze dei poteri economici e religiosi. Su una struttura istituzionale che ancora oggi è sbilanciata verso la destra, con un potere giudiziario maggioritariamente schierato, in maniera esplicita, a destra.
CON UN RE EMERITO, Juan Carlos, che oggi vive all’estero, allontanato dal suo stesso figlio che non vuole rischiare di mettere a repentaglio il suo stesso potere. Sono uscite proprio in questi giorni in Francia (in Spagna usciranno il mese prossimo, passato il delicato anniversario) le memorie dell’ex re. Che evitano di posizionarsi sugli scandali che lo hanno travolto. La Casa reale ha organizzato un evento ufficiale domani per celebrare i suoi 50 anni di potere. Juan Carlos non è stato invitato. Andrà sabato a un pranzo «familiare», senza stampa e foto ufficiali. La Spagna continua ad avere scheletri nel proprio passato da nascondere. Mentre Vox e l’estrema destra sbiancano i 40 anni di dittatura, e giovani marciano col braccio alzato sostenendo impunemente che il regime ha fatto un sacco di cose buone.



