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Berlusconi e Dell’Utri, la sentenza che non c’è

Non si può far dire alla Cassazione ciò che la Corte non ha detto sui rapporti fra Silvio Berlusconi, Marcello Dell’Utri e la mafia. È bene dunque mettere ordine, restituire alle parole il loro significato e ai giudici le loro decisioni.

La Suprema Corte non ha ancora scritto alcuna sentenza che “esclude” Berlusconi da ogni legame con Dell’Utri, né ha detto che quest’ultimo non ha avuto rapporti con Cosa nostra. Non esiste.

C’è invece una pronuncia di inammissibilità del ricorso della procura generale di Palermo, relativo al rigetto delle misure di prevenzione patrimoniali nei confronti di Dell’Utri, perché l’accusa riteneva che il suo patrimonio fosse di natura illecita. E sospetti erano anche i versamenti milionari che per diversi anni Berlusconi gli ha fatto, sia durante il processo in cui il suo amico era imputato, che durante gli anni in cui è stato in carcere. Per i giudici è tutto lecito, anzi versamenti di un amico. Nulla di più, nulla di meno. Un giudizio tecnico, processuale, non di merito.

La decisione di pochi giorni fa non è una sentenza degli ermellini. È una decisione sulla ricevibilità. Eppure, c’è chi si affretta a raccontarla come fosse un’assoluzione in punto di mafia. La storia giudiziaria dell’amico di Berlusconi è scritta in sentenze definitive, proprio dalla Cassazione che nel 2014 ha apposto il sigillo dell’irrevocabilità alla condanna di Dell’Utri per concorso esterno in associazione mafiosa.

Una condanna che non riguarda una “vicinanza sospetta” o “amicizie discutibili”, ma un patto di protezione stretto con la mafia palermitana, con i boss di Cosa nostra, finalizzato a garantire a Berlusconi sicurezza personale. Un patto attivo dal 1974 al 1992, vent’anni di silenzi, di complicità, di denaro.

I giudici del tribunale delle misure di prevenzione di Palermo, in virtù di questa sentenza definitiva, hanno trattato su proposta della procura, un procedimento patrimoniale e nell’ultima decisione d’appello, i giudici hanno ritenuto non dimostrato che i beni e le somme di denaro ricevute da Dell’Utri fossero di natura illecita. Per loro si tratta di “elargizioni affettive” nate dall’amicizia profonda che aveva con Berlusconi. Un’opzione legittima. Donazioni lecite che non sono state fatte per pagare il silenzio durante gli anni del lungo processo a Dell’Utri e poi quelli del carcere che ha fatto.

Dell’Utri, scrivono i giudici nelle sentenze penali, ha mediato tra Berlusconi e Stefano Bontate, capo storico di Cosa nostra. Non un passante. Non un inconsapevole. Un mediatore consapevole, determinante. Il canale. Il ponte tra due mondi che avrebbero dovuto essere incompatibili: quello della finanza milanese e quello della mafia siciliana.

Nella sentenza definitiva che condanna Dell’Utri si dice che era il tramite tra Cosa nostra e Silvio Berlusconi. Che il patto prevedeva il versamento di “rilevanti somme di denaro” in cambio della protezione mafiosa. Che non c’era violenza, ma un accordo volontario. Una propensione a pagare per garantirsi la pace.Dell’Utri non è un perseguitato. È un condannato. Berlusconi non è un estraneo. È un attore, almeno in quella stagione, dentro un meccanismo di scambio che prevedeva danaro in cambio di protezione. Cosa nostra non è un fantasma. È un soggetto politico-criminale che ha saputo inserirsi nel cuore dello stato.Non c’è oggi, dunque, una sentenza della Cassazione che cancella i rapporti fra Dell’Utri e la mafia. Ce ne sono, invece, che le raccontano. Con la freddezza del diritto, ma con una chiarezza che nessuna propaganda può oscurare.

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