La donna che ha documentato gli scavi archeologici di Roma ad acquerello

Ci si inoltra nel silenzio del ventre industriale della Centrale Montemartini attirati da un rumore continuo di clacson e di picconi. È un filmato dell’Istituto Luce, sono camion e operai all’opera nelle demolizioni di quartieri, piazze e palazzi del centro di Roma. Un suono che rimane addosso mentre si guardano gli acquerelli che raccontano gli impietosi sventramenti voluti da Mussolini per isolare i monumenti antichi e aprire grandi strade di scorrimento, le “vecchie case che muoiono per la grandezza di Roma”. Fanno parte della mostra Maria Barosso, artista e archeologa nella Roma in trasformazione, promossa da Roma Capitale, Assessorato alla Cultura – Sovrintendenza Capitolina ai Beni Culturali e prodotta in collaborazione con La Sapienza. In esposizione ci sono 137 opere, di cui circa 100 tra acquerelli, disegni, rilievi, dipinti.
La Roma documentata da Maria Barosso
Prima presso il servizio archeologico nazionale, al fianco di Giacomo Boni, poi presso la Soprintendenza ai Monumenti con Antonio Muñoz, Maria Barosso (Torino, 1879 – Roma, 1960) ebbe un ruolo privilegiato nella documentazione tecnica dei monumenti antichi e medievali, nell’esplorazione dei Fori e dei rinvenimenti archeologici, nelle riproduzioni delle pitture – affreschi e mosaici – nelle chiese riscoperte, nel cortocircuito provocato dai cantieri del Ventennio: Roma che viene, Roma che va. Nello sguardo ipnotico delle figure di S. Maria Antiqua al Foro, c’è il silenzioso a tu per tu della copista a contatto con pitture solenni e accese, ma fragili, la stessa vulnerabilità mostrata impietosamente da Fellini in “Roma”.
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Maria Barosso e il disegno
Barosso catalogò anche la sciatteria del fuoco amico: fece in tempo a repertare i resti del Compitum Acilium, appena affiorato, subito demolito senza rimpianti per la fretta di aprire Via dell’Impero, idem per il grande teschio di elefante del Pleistocene, fatto sparire con altrettanta rapidità. In entrambi i casi l’uso dell’acquarello permette di vedere le gradazioni degli strati geologici. Non deve meravigliare la consuetudine col disegno dal vivo, all’epoca in copertina la “Domenica del Corriere” aveva un disegno, non una foto. Nella documentazione archeologica convivevano la fotografia e l’acquerello, un disegno ragionato con una salda preparazione alle spalle.
Maria Barosso, artista e archeologa nella Roma in trasformazione, Musei Capitolini Centrale Montemartini, 2025, exhibition view. Ph: WPS
Le verità di Roma consegnate all’acquerello
E poi ci sono le demolizioni urbanistiche, le apocalittiche vedute. Negli acquerelli di Barosso non c’è la fascinazione di inglesi, tedeschi e francesi a caccia di immagini souvenir del Grand Tour, quelle visioni di Roma diventate luoghi così comuni da non appartenere più a nessuno. Non c’è neanche la suggestione della rovina a contatto con l’agro. C’è una città viva che va sparendo, ed è quella che ha resistito alla tremenda cesura con la fine della città antica. Il piccone “traditore” e lo sfollamento degli abitanti nelle borgate non hanno ancora il paracadute del neorealismo. Siamo più vicini alla disperazione della canzone Casetta de Trastevere (1934), “Fa’ piano a murato’ co’ quer piccone, nun lo vedi c’è mamma ancora lì”. Dei tanti micromondi estirpati per sempre, la demolizione del teatro delle marionette all’Arco dei Saponari nel rione Campitelli, è la Guernica di Maria Barosso. Una scena esemplare, datata ottobre 1929, una violenta ottobrata: sono le operazioni di isolamento del Colle Capitolino per l’apertura della Via del Mare. Barosso documenterà anche le fasi di sbancamento della collina Velia per realizzare quella che oggi è Via dei Fori Imperiali.
Ritrovare Roma nei disegni di Barosso
Nell’acquerello vediamo un edificio in gran parte sfondato, sopra l’unica parete interna ancora in piedi, si legge la scritta “Teatro Marcello”. Al catasto risulta “una casa con dentro un piccolo teatro per spettacoli secondari”. Sulla scena, in alto, sopra il tetto squadernato, gli operai tirano delle funi legate alle mura, altri in basso continuano a picconare e caricare le macerie sui camion. In fondo si staglia una spalla del Vittoriano. E poi c’è il vuoto: non c’è più traccia dell’arco che da Piazza Margana conduceva al Vicolo dei Saponari (qui si fabbricava e vendeva sapone), che a sua volta portava al teatro e alla chiesa di S. Maria in Vincis, conficcata tra altri edifici. È già sventrata Via Tor de Specchi, e anche la ruggente e stracciona Piazza Margana è in via di estinzione. Presto sarà in macerie anche la chiesa, come se i suoi 750 anni non contassero nulla. Questa matrioska alle pendici del Campidoglio, lato monte Caprino, non esiste più. Il teatro di marionette era “assai modesto ma piuttosto antico se giù nel 1764 se ne proponeva il restauro” scrive Rava ne I teatri di Roma (Palombi), altri attestano almeno il 1734. In una delle sue passeggiate più gonze, nel 1853 Ferdinand Gregorovius ficcò la testa in quel “vicoletto illuminato da un lampione quando non c’è la luna” dove per un pubblico di monelli, mendicanti e operai andavano in scena drammi cavallereschi, romanze medievali, l’Ariosto. “Si apre la porta socchiusa dei Saponari – in una vecchia casa lurida – si odono le voci dei ragazzi che litigano, sciami di ragazzi cenciosi che urlano e si spingono davanti al botteghino, un buco che assomiglia vagamente ad una camera, e per la stretta scala di pietra del teatro”. Il loggione in legno costa due baiocchi, la platea uno, il palchettone tre. Gregorovius sale in alto e guarda in giù: “Questa platea non deve aver mai conosciuto né l’onore, né il beneficio di una scopa. Sul suo pavimento di terra battuta vi sono migliaia di semi bianchi di zucca, bucce di frutta e pezzi di carta che formano un mosaico naturale”. Il chiasso lo manda in estasi: “Sembra di essere nell’arca di Noè e di sentir urlare in una sola volta tutte le razze animali della foresta vergine”.
Del teatro di marionette all’arco dei Saponari l’unica fonte iconografica esistente è l’acquerello di Maria Barosso. Siamo rientrati nei santuari arcaici e nelle catacombe paleocristiane, siamo penetrati di nuovo nel mistero e nel culto, ma non rientreremo più nel teatro dei Saponari, un pozzo di legno e di voci, stipato fino all’orlo, gonfio di tumulto e attese.
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Maria Barosso, artista e archeologa nella Roma in trasformazione, Musei Capitolini Centrale Montemartini, 2025, exhibition view. Ph: WPS
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Maria Barosso, artista e archeologa nella Roma in trasformazione, Musei Capitolini Centrale Montemartini, 2025, exhibition view. Ph: WPS
Su Roma, Joyce si sbagliava
Cosa è rimasto delle “imperiose esigenze del traffico”, della liberazione di cubature stonate, incompatibili con la Grande Roma? Il vuoto inabitato del nuovo stradone, un deserto improvviso, una metafisica inutile, il senso vietato dopo il semaforo alla Bocca della Verità che castra la fuga verso il mare. Quando Joyce calunnia Roma moderna dicendo che la città “si mantiene mostrando ai viaggiatori il cadavere di sua nonna”, Barosso è già nella capitale e Boni già sulla mongolfiera. Degli sforzi di riportare alla luce, capire, sistemare la città antica, dell’avventura in verticale, dello scavo come rivelazione e non come caccia spasmodica al monumento, a Joyce non interessa. Nemmeno dei cantieri delle demolizioni e delle riscoperte: Joyce non è mai tornato a Roma per dire “ah quanto spazio, via la nonna, finalmente un po’ di luce, aria!”. Però la calunnia è sopravvissuta nel tempo nonostante la storia sia andata in direzione contraria.
Il catalogo della mostra su Maria Barosso
In questo senso la prima mostra monografica su Maria Barosso è una risposta a Joyce. Una mostra poderosa, un archivio in dialogo con fotografie, documenti e manufatti storici, con un catalogo notevole a cura di Ilaria Miarelli Mariani Angela Maria D’Amelio, Maurizio Ficari, Manuela Gianandrea, Domenico Palombi, con 78 interventi, 464 pagine e oltre 400 illustrazioni a colori (De Luca Editori d’Arte). Un impegno congiunto per raccogliere i tanti materiali conservati in diversi archivi: su tutti la Sovrintendenza Capitolina e il Museo di Roma, il resto da collezioni private, dal Museo Nazionale Romano, il Parco Archeologico del Colosseo, il Vicariato e la Fondazione Camillo Caetani. Uno sforzo muscolare per contenere l’archeologa, unica disegnatrice donna e prima donna funzionaria, la disegnatrice – “un profilo riconosciuto che non valse ad assicurarne la memoria, oscurata da personalità istituzionali, accademiche e scientifiche che si avvalsero del suo lavoro” – l’artista – che realizzò nel tempo libero molti di quegli importanti acquerelli – e l’epoca in cui Roma ha subito radicali trasformazioni.
Stefano Ciavatta
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Ulteriori info
La prima mostra monografica dedicata a Maria Barosso, che nei primi decenni del XX secolo ha collaborato, unica disegnatrice donna e prima donna funzionaria presso…
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