Kwaheri Ornella, il suo bel legame con il Kenya

C’è stato un tempo in cui, affacciandoti sulla spiaggia di Malindi, poteva capitarti di trovare in veranda non solo l’oceano, i gechi e i soliti italiani in fuga da qualcosa, ma anche la voce di un Paese intero. Magari seduta su una sedia di vimini, ospite a casa di Gino Paoli, con lo sguardo di chi ha visto parecchio e ancora si stupisce.
In quel tempo, tra un gin tonic annacquato e una brezza dell’Oceano Indiano che sistemava i pensieri meglio di uno psicologo, a Malindi è passata anche Ornella Vanoni. Non in tournée, non in palcoscenico: in infradito. La signora della canzone italiana nella città dove le signore, di solito, servono ai tavoli o fanno le cameriere nelle ville dei vip, quando va bene.
Di Ornella ricordiamo le canzoni, i duetti, le interviste cattive e autoironiche. Ma vale la pena ricordare anche un’Africa privata, domestica, senza riflettori. Quella che per lei ha il volto di una cameriera keniana che le è stata vicino “quando ho avuto l’incidente alla gamba”. Niente copertine, niente conferenze stampa sulla solidarietà: solo una donna africana che accudisce una donna europea, in una casa con vista spiaggia. È cominciata lì, più o meno, la piccola grande storia che lega Ornella al Kenya.
Da quella cameriera sono arrivate tre figlie. Tre ragazze africane che lei definiva “le mie ragazze”, e che non ha deciso di “salvare”, ma semplicemente di accompagnare dove qui, in Kenya, passa spesso la frontiera invisibile tra una vita stretta e una vita decente: la scuola. “Pago direttamente la scuola e la mamma”, diceva con quella schiettezza che non ha bisogno di hashtag. “Studiare per loro è fondamentale”. Lo è per molti, qui: mentre nei nostri Paesi la scuola è una seccatura, in buona parte dell’Africa è ancora un privilegio. Un lusso che, a volte, sta in un’uniforme stirata e in un paio di scarpe intere.
Niente fondazioni con nomi altisonanti, nessun logo da stampare su t-shirt, nessun gala di beneficenza con il tavolo vip. Ornella ha scelto la scorciatoia più rivoluzionaria: il rapporto diretto. Vedo il tuo bisogno, posso permettermelo, faccio. Fine del comunicato. E però la stoccata a chi di mezzi ne ha molti più di lei non se l’è tenuta dentro: “Chi è molto ricco può fare tanto, tanto, tanto di più”. In un mondo dove tutti si sentono filantropi perché hanno messo “donazioni” tra le spese annuali, fa un certo effetto sentirsi dire che sì, si potrebbe anche alzare l’asticella.
Ma il punto, per lei, non era mettersi la medaglia. Anzi. “È incredibile come ritorni quello che si fa per gli altri”, raccontava parlando di Africa. Come se questo continente, tanto accusato di essere un pozzo senza fondo, avesse invece una sua contabilità segreta: ti presenta il conto, ma ogni tanto restituisce con interessi. Non per forza in soldi: magari in messaggi, abbracci, sguardi, diplomi sventolati da tre ragazze che ce l’hanno fatta anche grazie al bonifico mensile di una cantante milanese con l’aria da eterna disincantata.
E poi c’era il dettaglio più importante, quello che in Kenya capisci solo se ci vivi: “Tutti dicono che la riconoscenza non c’è. Io dico che dipende. E poi, io non è che pretendo la riconoscenza dall’Africa. Non ha senso”. Ecco la frase che basterebbe scolpire su qualche villa vista oceano. L’Africa non è un bancomat emotivo: non le dai qualcosa per poterti sentire migliore, e soprattutto non le presenti il conto dopo. Non ti deve niente, questo continente. E quando qualcuno che ha riempito teatri dice “non pretendo riconoscenza dall’Africa”, sta mettendo in ordine, con due righe, tutta la retorica dei “vi abbiamo aiutato” che ci portiamo dietro da decenni.
Malindi, nel frattempo, continua a essere quello che era anche quando passava Ornella: un piccolo carnevale per ricchi in fuga e poveri stanziali, turisti stanchi e bambini che corrono scalzi sulla spiaggia. Un posto dove l’allegria convive con l’amarezza, la musica con i blackout, i resort con le baraccopoli. Forse è per questo che qui, ancora oggi, certe sue canzoni suonano perfette: perché raccontano un modo di stare al mondo un po’ sfinito e un po’ testardo, ironico e dolente, capace di dire “buonanotte all’incertezza” sapendo benissimo che l’incertezza, il giorno dopo, si ripresenterà puntuale alla porta.
Ornella non ha mai fatto finta che la vita fosse semplice. L’Africa, meno che mai. Ma le ha riconosciuto una cosa che Malindi ti sbatte in faccia ogni mattina: nonostante tutto, c’è sempre un carnevale che prima o poi ti passa dentro. Una voglia di provarci, di rischiare, di farsi male e bene allo stesso tempo. Una “pazzia” che qui è iscritta nel DNA dei sopravvissuti quotidiani: le mamme che fanno tre lavori, le figlie che studiano di notte alla luce del telefono, i ragazzi che sognano un futuro che non somigli per forza al passato dei genitori.
Forse per questo ci viene naturale salutarla così, da questa sponda dell’oceano dove una volta è arrivata da ospite e oggi resta in filodiffusione, tra un bar sulla Lamu Road e una veranda affacciata sugli alisei.
Ornella, l’Africa è come te quando cantavi: stanca e bellissima, un po’ disillusa e ancora capace di allegria, piena di problemi e ostinata nel cercare l’amore comunque. E noi, qui in Kenya, continueremo a vederla anche negli occhi di tre ragazze che studiano. Magari un giorno, senza troppe parole, brinderanno a te. E sarà il modo più africano – e più tuo – di “morir d’amore insieme” a un continente che non ti deve niente, ma qualcosa ti ha restituito davvero.




